Oggetto | Galatina, Santa Caterina, cenotafio di Raimondello Orsini del Balzo | |
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Luogo di conservazione | Galatina | |
Collocazione originaria | Galatina | |
Materiale | pietra calcarea dipinta | |
Dimensioni | ||
Cronologia | prima metà del Quattrocento | |
Autore | ignoto | |
Descrizione | Il monumento funebre, collocato nel presbiterio della chiesa di Santa Caterina a Galatina, è addossato alla parete destra dell’altare maggiore, e copre con la sua mole parte degli affreschi sottostanti. Tradizione vuole che si tratti di un cenotafio: quasi tutti gli studi hanno infatti sostenuto che le spoglie di Raimondello Orsini del Balzo furono conservate nella Cattedrale di Taranto all’interno della Cappella di San Cataldo, atta ad ospitare i resti mortali dei Principi di Taranto (la gran parte dell’arredo di questa cappella andò perduta quando nel Settecento si decise di erigere il più ampio Cappellone di San Cataldo, tuttora esistente). Una coppia di colonne sostiene la cassa funebre sulla cui fronte è adagiata la figura, distesa e ribaltata, di Raimondello, fondatore della basilica francescana. Lo slancio delle colonne è reso ancora più evidente dalla giustapposizione, al di sopra del capitello, di altri due elementi architettonici che fungono da base alla piattaforma che sorregge il defunto: un capitello ornato da eleganti motivi fitomorfi intagliati con largo uso del trapano che determina un forte trapasso chiaroscurale tra i pieni e i vuoti della superficie lapidea, e una sorta di basso pulvino poggiato su una cornicetta liscia, anch’esso arricchito da decori vegetali. In entrambi i casi, e specie per il tipo di decorazione e di resa formale che contraddistingue il capitello, si tratta di elementi di decorazione architettonica che palesano ancora forti e schietti legami con la tradizione figurativa bizantina, così radicata in Terra d’Otranto. È interessante evidenziare che la tipologia e la plastica del capitello in questione sono simili a quelle delle colonnine angolari che sorreggono la volta del presbiterio della chiesa. Come consueto nell’iconografia funeraria, specie in età medievale e moderna, il corpo del defunto è reso visibile da due angeli reggicortina, collocati agli estremi del gisant. Sulla cornice liscia al di sopra del tendaggio sono ancora visibili labili tracce di un’iscrizione dipinta molto lacunosa e dunque oggi non più leggibile. Raimondello, il cui capo poggia su un piccolo cuscino, è raffigurato con le mani giunte sul petto, e indossa il saio, a testimonianza della devozione del Principe verso l’ordine francescano. La base dell’arca funebre presenta una bella decorazione neo-romanica che dal centro, dove campeggia lo stemma Orsini del Balzo, si dispiega attraverso sei coppie di leoni (tre per lato) che vomitano racemi vegetali. L’emblema della casata è scolpito anche sul cuscino, che reca incisi la stella dei Del Balzo a destra e la losanga con la rosa degli Orsini. Al di sopra dell’arca, conclusa in alto da una cornice decorata da motivi vegetali stilizzati, s’innalza la statua di Raimondello, raffigurato con le mani giunte in atto di pregare: dalla posa e dalle proporzioni il Principe sembra inginocchiato, benché manchino le gambe e i piedi, forse perduti. In effetti non sappiamo se nella supposta collocazione originaria, cioè nell’abside, il monumento fosse addossato alla parete, com’è ora, o se tra di esso ed il muro absidale vi fosse dello spazio, così da ipotizzare la presenza di una statua a tutto tondo (comprensiva degli arti inferiori che completassero la figura dell’inginocchiato). Di certo la statua ha subito più d’un danno, come si evince chiaramente dalla grossa frattura che ne percorre la superficie all’incirca a venti centimetri dalla base; le mani e parte del volto sono il frutto di una ricostruzione moderna, forse da ricondurre al massiccio intervento di restauro, che riguardò anche gli affreschi, occorso negli anni settanta del Novecento. Una fotografia scattata da Soergel nel 1963, infatti, documenta ancora la figura del Principe privo di mani. Risulta inoltre interessante il confronto tra questa immagine ed una fotografia Alinari, datata entro il 1920, che testimonia lo stato di conservazione della parete su cui si addossava il fastigio della tomba, prima che esso fosse distrutto dal fulmine. Nell’immagine più antica, quella Alinari, il muro reca evidenti i solchi, piuttosto profondi, del timpano cuspidato che chiudeva in alto il sepolcro; una buona metà del riquadro affrescato manca, poerché danneggiato dalla giustapposizione del timpano. Nella foto Soergel, invece, uno strato di intonaco ha coperto tutte le tracce che il fastigio aveva lasciato sulla parete. Il cenotafio conserva ancora la cromia, non si sa quanto originaria. Prima che, nel 1867, un fulmine si abbattesse sull’edificio distruggendo buona parte del coronamento, l’opera si concludeva con un timpano cuspidato e gattonato sorretto da due colonnine ottagonali, di cui oggi resta soltanto quella sinistra. All’interno del fastigio cuspidato si stagliava, al centro, lo stemma Orsini del Balzo retto ai lati da due orsi, come si evince da un disegno pubblicato da Pompeo Litta e da un acquerello eseguito dall’artista galatinese Pietro Cavoti, entrambi attestanti la facies del monumento antecedente ai danni arrecati dal fulmine. | |
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Committente | Maria d'Enghien? | |
Famiglie e persone |
Maria d'Enghien | |
Iscrizioni | ||
Stemmi o emblemi araldici | Stemma Orsini del Balzo | |
Note | Il Putignani (1949, 115) affermò, tuttavia senza indicare la fonte di tale notizia, che il cenotafio di Raimondello, originariamente allogato nell’abside della chiesa, fu trasferito da questo luogo alla collocazione attuale dopo che, intorno agli anni cinquanta del Quattrocento, Giovanni Antonio Orsini del Balzo, figlio di Raimondello, fece erigere il coro sfondando la parete absidale. Di tale spostamento non si ha altra attestazione. Pina Belli D’Elia (1991, 269 nota 22) ha scritto, senza però indicare la fonte di tale notizia, che “durante i lavori di restauro ai pavimenti si sono trovate, pare, le tracce degli originari appoggi della tomba, dietro l’altare maggiore”. Il dato certo è che la collocazione attuale non corrisponde a quella originaria, visto che la tomba, nell’addossarsi alla parete, ha coperto parte degli affreschi, raffiguranti le Storie di Santa Caterina d’Alessandria, che si suole datare entro gli anni quaranta del XV secolo. Non si può escludere che l’opera sia stata commissionata da Maria d’Enghien, la moglie di Raimondello, entro il più ampio programma di decorazione dell’edifico chiesastico promosso da Maria e avviato quando il marito era già morto (1406), e che sia stata eretta nel luogo più ambito e prestigioso, la parete di fondo dell’abside. In un secondo momento, a seguito dell’erezione del coro voluta da Giovanni Antonio, il sepolcro abbandonò il centro dell’abside rimanendo però a questa molto vicina, se pur a scapito della completa fruizione degli affreschi. L’analisi formale dei principali elementi figurativi della tomba induce ad inserire l'opera entro quella complessa rete di relazioni culturali istituite nel corso del XV secolo tra la Puglia, Venezia e la Dalmazia di cui lo scultore galatinese Nuzzo Barba è stato forse il più eminente rappresentante. Eppure, il confronto con le opere documentate di questo maestro, la tomba di Petruccio Bove (1485) e il pulpito conservato nella chiesa conversanese di Santa Maria dell’Isola, non paiono orientare il sepolcro di Raimondello nella direzione del Barba. Anche il parallelo con il mausoleo di Giulio Antonio Acquaviva d’Aragona e di Caterina Orsini del Balzo, che si erge nella medesima chiesa conversanese, e che fu eseguito dalla bottega dell’ormai anziano scultore intorno agli anni venti del Cinquecento, si limita alla sola tipologia, non potendosi certamente sostanziare di alcuna vera analogia stilistica. È da escludere che il cenotafio possa essere stato compiuto nella seconda metà del Cinquecento, secondo un’ipotesi espressa, pur timidamente, da Clara Gelao (1988, 20), nell’ambito di un più ampio programma di celebrazione degli Orsini del Balzo che la studiosa ascriverebbe inspiegabilmente ai Sanseverino di Bisignano (tra i possedimenti dei quali Galatina rientrò dal 1561 in poi), e che avrebbe interessato anche il monumento funebre di Giovanni Antonio Orsini del Balzo allogato nell’abside della basilica cateriniana. Tornato a Galatina dopo il 1870, Pietro Cavoti, membro da qualche tempo della Sottocommissione Nazionale di Giunta delle Belle Arti, nominata al fine di stilare un elenco dei monumenti d’interesse nazionale, partecipò in prima persona ai restauri della basilica orsiniana, ed in particolare della tribuna. Dal 1877 al 1890, ottenuto il ruolo ispettore agli scavi e monumenti per Galatina, si diede alla realizzazione di una seconda campagna di rilievi (dopo quella eseguita prima del 1867) che costituì la base per i futuri restauri volti al ripristino della facies gotica dell’edificio religioso. Nel 1877 l’intenzione era quella di ricostruire il cenotafio, secondo l’acquerello che il Cavoti aveva tratto anni prima, com'è attestato da una lettera del 16 ottobre 1877 con la quale l’ingegnere del Genio Civile incaricato dei restauri informava il prefetto di Lecce di aver visionato i disegni della tomba di Raimondello che il Cavoti aveva realizzato “prima della sua rovina”. L’ingegnere continuava dicendo che “per ricostruire le parti mancanti [della tomba di Raimondello] occorre uno studio accurato e fatto da persona dell’arte, la quale degli elementi esistenti potesse interpretare le parti mancanti, conservandone scrupolosamente il carattere. I disegni del sig. Cavoti, tali come sono fatti in scala molto piccola, non [possono] che prestarsi come semplice aiuto … mentre sulla loro scorta si può sperare di riprodurre l’opera antica esattissimamente … tale lavoro [di ricostruzione] potrebbe compiersi, con miglior esito, dallo stesso illustre professore Cavoti” (Canali, Galati 1988, 73). Dalla medesima lettera sappiamo che i pezzi del timpano del cenotafio si conservavano ancora, e che si era deciso, dopo averli ricomposti, di integrare le parti mancanti ai fini di una ricostruzione totale del fastigio cuspidato. Ma questa operazione, così come l’intero programma di restauri concepito in quegli anni anche con la collaborazione di Pietro Cavoti, fallì a causa delle numerose difficoltà tecniche riscontrate e per il lievitare delle spese. Bisognerebbe forse ridiscutere l’opinione, ormai consolidata tra la storiografia, che anche per il monumento di Raimondello, come per quello del figlio Giovanni Antonio, si tratti di un cenotafio. Alessandro Cutolo (1977, 172 nota 5) ha rilevato che non vi è alcuna notizia certa dell'avvenuta sepoltura di Raimondello a Taranto; lo studioso è anzi convinto che la vulgata secondo la quale Raimondello sarebbe stato sepolto nella Cattedrale tarantina sia il frutto dell’errata interpretazione di un passo del Crassullo (post 1415, 119), nel quale il cronista, dopo aver ricordato che Raimondello morì a Lecce, aggiunse che “venit eius uxor de Lycio Tarentum ubi fuerant factae exequiae valde pulchrae”. Tale passo, che registra i funerali svoltisi a Taranto, ma che non contiene affatto la notizia di un effettivo seppellimento del Principe nella città ionica, può in effetti essere stata oggetto di fraintendimento delle fonti successive. L'esistenza di una tomba di Raimondello a Taranto non è attestata, ma non è certo da escludere che i resti mortali del Principe siano state depositate all'interno della Cattedrale della città che costituiva la capitale del governo orsiniano. D'altronde, il legame che Raimondello ebbe con Galatina e, nello specifico, con la basilica francescana di Santa Caterina, induce a pensare che lo stesso Principe abbia espresso la volontà di essere sepolto nella fabbrica la cui fondaione egli stesso aveva fortemente sostenuto e attuato. | |
Fonti iconografiche | ||
Fonti e documenti | ||
Bibliografia | Belli D’Elia 1996: Pina Belli D’Elia, “Principi e mendicanti. Una questione d’immagine”, in Territorio e feudalità nel Mezzogiorno rinascimentale, Atti del I Convegno Internazionale di studi sulla casa Acquaviva d’Atri e di Conversano (Conversano, Atri, 13-16 settembre 1991), a cura di Caterina Lavarra, Galatina 1996, 261-348 (in partic. 267-274).
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Calvesi, Manieri Elia 1971: Maurizio Calvesi, Mario Manieri Elia, Architettura barocca a Lecce e in Terra di Puglia, Milano-Roma 1971, 32.
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Castellano 1975: Antonio Castellano, “Civiltà del Rinascimento in Puglia: Nuzzo Barba”, Studi Bitontini, 16/17, 1975, 22-43.
Crassulo (ed. Pelliccia 1782): Angelo Filippo Crassullo [post 1415], Annales de rebus Tarentinis, ed. in Raccolta di varie croniche, diari e altri opuscoli così italiani come latini appartenenti alla storia del Regno di Napoli, a cura di F. Pelliccia, V, Napoli 1782, 109-125.
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Russo 2005: La parola si fa immagine: storia e restauro della Basilica orsiniana di S. Caterina a Galatina, a cura di Fernando Russo, Venezia 2005, 35. | |
Allegati | ||
Link esterni | ||
Schedatore | Paola Coniglio | |
Data di compilazione | 03/03/2015 14:42:41 | |
Data ultima revisione | 12/02/2017 20:27:31 | |
Per citare questa scheda | http://db.histantartsi.eu/web/rest/Opera di Arte/507 |