OggettoAcerenza, Cattedrale, busto
Luogo di conservazioneAcerenza
Collocazione originariaAcerenza
Materialepietra calcarea
Dimensionih: 68 cm; larghezza (base): 58 cm
Cronologia1510-1524
Autoreanonimo scultore locale attivo nel primo ventennio del XVI secolo
Descrizione

Il busto, in pietra calcarea, è scolpito in un unico blocco. Evidenti sono le tracce di erosione della superficie, senz’altro imputabili alla precedente collocazione. Infatti il pezzo, che oggi si conserva nel Museo del Duomo, fino all’inizio del secolo scorso si trovava in cima alla facciata della Cattedrale di Acerenza, dove ora è una croce (Bernabei, 1882; nell’articolo di Delbrück, del 1903, è attestata la sistemazione in facciata attraverso tre fotografie Moscioni).

Il tronco della figura è tagliato in maniera netta a metà delle braccia, che aderiscono al corpo. La parte posteriore del busto, solo sbozzata, è parzialmente cava.

Il personaggio, che dimostra all’incirca quaranta-cinquant’anni, è ritratto voltato alla propria sinistra. Il viso presenta un’impalcatura ossea robusta; la fronte è larga, le arcate orbitarie poco pronunciate, gli zigomi poco sporgenti. Gli occhi, il naso e la bocca presentano tratti e dimensioni regolari. Le guance e il collo, ad eccezione del mento, sono ricoperti da una barba folta, ottenuta attraverso l’impiego vistoso del trapano. La capigliatura, corta, segue le forme della calotta cranica, anch’essa piuttosto regolare; le ciocche che ricoprono la parte superiore del cranio sono a chiocciola, mentre quelle che scendono sulla fronte e sulle tempie, più accurate, sono allungate, a fiamma. Le due diverse tipologie di ciocche appaiono come divise dalla corona d’alloro, legata dietro alla nuca con un nodo, dal quale ricadono, libere, le due estremità.

L’abbigliamento è costituito da una corazza e da un mantello. La corazza, del tipo a scaglie, presenta spallacci in forma di piastre metalliche: quella di sinistra è ornata con un mascherone a rilievo; in quella di destra non vi è invece alcuna decorazione. La clamide, che attraversa il petto diagonalmente, si finge fermata con una fibbia piatta e rotonda sulla spalla sinistra.

A partire dal 1882 il busto è stato oggetto di numerose riflessioni, e i suoi studiosi si sono divisi seguendo essenzialmente tre orientamenti: c’è chi ha ritenuto il pezzo tardo-antico, chi lo ha considerato come opera di età federiciana e chi, in ultimo, ne ha proposto una datazione in epoca rinascimentale. Il dibattito non ha interessato soltanto la cronologia del manufatto ma anche l’identità del personaggio, che è stato variamente interpretato come Giuliano l’Apostata, san Canio (patrono della stessa Cattedrale), un imperatore romano (non identificato), san Pietro, Federico II di Svevia, fino ad arrivare ai meno inverosimili Galvano Lancia e Manfredi di Sicilia. Una sintesi delle diverse ipotesi avanzate dagli studiosi (vd. Fonti e documenti in questa scheda) è stata tracciata da Luigi Todisco (1986), il quale sembra aver fornito anche l’interpretazione più lucida e condivisibile del busto (sia per la cronologia che per l’identità del personaggio) tra tutte quelle che si sono avvicendate dall’Ottocento in poi. Ponendo l’accento sulla figura di Giacomo Alfonso Ferrillo conte di Muro Lucano, che si rese promotore insieme alla moglie Maria Balsa, entro il primo quarto del XVI secolo, di una significativa opera di ricostruzione della Cattedrale di Acerenza, Todisco, anche sulla base dei caratteri stilistici, ha proposto di identificare l’effigiato nello stesso Ferrillo, ipotizzando nel busto l’opera di un anonimo maestro lucano degli anni venti del Cinquecento.

In séguito al terremoto del 1456 il Duomo di Acerenza versava in condizioni disastrose; dal Liber piorum legatorum – 16 giugno 1559 – apprendiamo che i due coniugi finanziarono sia il rifacimento della chiesa superiore, quasi completamente rasa al suolo dall’ingresso fino al transetto, sia la realizzazione (ex novo) dell’intero Succorpo. Un’epigrafe incisa su un plinto della cripta permette di datare la fine di tutti i lavori (costati sedicimila ducati) al 1524. Nell’ambito del massiccio restauro rientrò anche la facciata della Cattedrale, nella quale ancora oggi può osservarsi, a suggello dell’impegno profuso dai committenti, lo stemma della famiglia Ferrillo, scolpito entro una lastra marmorea al di sopra del portale. Pur non pronunciandosi sulla fattura del busto, Nuccia Barbone Pugliese (1982) ha ipotizzato che esso fosse sistemato nel punto più alto del prospetto della Cattedrale in occasione di quei lavori condotti nei primi decenni del XVI secolo. Todisco, riagganciandosi alla Barbone Pugliese, e ricordando anche gli interventi sull’edificio patrocinati più tardi dall’arcivescovo Giovanni Michele Saraceno, riguardanti il campanile, e conclusisi nel 1555 (come attesta un’epigrafe ancora oggi nel prospetto della torre), ha tratto questa conclusione: “È del tutto verosimile, quindi, che la sistemazione della scultura [del busto] all’esterno della chiesa, nel luogo ove oggi è visibile una croce in pietra, sia avvenuta negli anni immediatamente successivi al 1524 quando fu portato a termine il rifacimento della facciata o, meno probabilmente, più tardi al massimo di un trentennio, in connessione con la ristrutturazione del campanile completata nel 1555” (Todisco, 1986, 49-50). Sempre Todisco, sulla base di tali presupposti, e in considerazione degli interessi antiquari del Ferrillo (comprovati dal Terminio e anche dalle scelte operate nella cripta), dell’analisi stilistica del busto, nonché dell’uso delle immagini di fondatori e benefattori laici nei prospetti delle chiese beneficate, uso attestato fin dal Medioevo, si è spinto ad ipotizzare che il busto possa rappresentare lo stesso Giacomo Alfonso Ferrillo, nelle vesti ideali di un imperatore romano o di un miles Parthenopeius (secondo una scelta iconografica ben precisa).

Alla ricostruzione offerta da Todisco, e alle conclusioni tratte dallo studioso, è possibile aggiungere qualche considerazione.

Il taglio del busto, insieme al fatto che esso è cavo nel retro (secondo una prassi solita, volta ad alleggerire il blocco), lascia supporre una collocazione del pezzo fin dalle origini leggermente “alta”; la forma “piatta” dell’opera e la natura sommaria e abbozzata del retro consentono di pensare a una sistemazione originaria all’interno di una nicchia.

È possibile immaginare il busto eseguito dalle stesse maestranze attive per Giacomo Alfonso Ferrillo nel Succorpo, e negli stessi anni (ante 1524) – come sembrerebbe dimostrare anche il dettaglio del mascherone sullo spallaccio sinistro della figura, motivo che si ripete all’interno della cripta –, ed è possibile pensare che esso fosse collegato fin dalle origini con la Cattedrale. Il Conte di Muro potrebbe aver commissionato un proprio ritratto idealizzato – da collocarsi all’interno del Duomo (chiesa superiore), entro una nicchia, accompagnato eventualmente da un’iscrizione –, allo scopo di perpetuare il proprio nome e di legarlo alla Cattedrale in qualità di suo “(ri)fondatore”/restauratore.

La morte di Giacomo Alfonso Ferrillo († 11 aprile 1530; vd. scheda sul sarcofago di San Canio) coincise quasi con l’elezione del nuovo arcivescovo di Acerenza e Matera (1531-1556) nella persona di Giovanni Michele Saraceno, il quale si pose per certi versi sulla stessa linea del Ferrillo, rendendosi promotore, come il Conte di Muro Lucano, di un programma teso a rivalutare il mondo classico e le antichità, essendo l’esecutore dei lavori del campanile e dei reimpieghi di spolia nelle sue cortine murarie. Egli detenne il governo della diocesi fino al 1556; con le sue dimissioni, in quell’anno, subentrò il nipote Sigismondo (1556-1585), appena ventiseienne.

A questo punto è necessario ricordare che i due arcivescovi Saraceno ebbero come stemma personale una testa di moro attortigliata (il primo inquartata con fasce, il secondo una testa di saraceno “pura”). E sembra di rilevare una certa ostentazione dello stemma, in particolare da parte di Sigismondo, nelle opere da lui commissionate e negli edifici di propria pertinenza. Basti pensare, a tal proposito, a questo esempio materano (Acerenza e Matera, come ricordato, appartenevano alla medesima diocesi): nell’architrave del portale della chiesa di Santa Maria della Palomba (che l’arcivescovo Saraceno aggregò al Capitolo della Cattedrale) sono scolpiti alcuni simboli arcivescovili (una mitra, un pastorale) e, insieme, una testa di moro a bassorilievo.

C’è da chiedersi, dunque, se la stessa volontà di ostentazione araldica da parte del Saraceno junior (e forse anche del Saraceno senior) non possa essere stata alla base di quell’operazione che avrebbe condotto il busto dall’interno all’esterno della Cattedrale, sul punto più alto della facciata. Una volta morto il Ferrillo, Giovanni Michele, oppure più verosimilmente il nipote Sigismondo (che avrebbe potuto operare dopo la morte anche di Maria Balsa), avrebbe provveduto a collocare il busto in facciata, rispondendo a una doppia esigenza: richiamare le origini antiche della città, ma soprattutto utilizzare il busto come elemento immediatamente riconoscibile del proprio casato. Insomma, c’è da chiedersi se il busto non possa essere diventato col tempo una sorta di versione “tridimensionale” dello stemma Saraceno. A quell’altezza, nessuno si sarebbe accorto della corazza, mentre la barba, i capelli e quella sorta di fascia in testa avrebbero potuto facilmente richiamare la testa di un moro, di un saraceno.

Immagine
CommittenteGiacomo Alfonso Ferrillo (?)
Famiglie e persone

Giacomo Alfonso Ferrillo

Iscrizioni
Stemmi o emblemi araldici
Note

Il primo a considerare il busto è stato nel 1882 Felice Bernabei, che lo ritenne un ritratto di Giuliano l’Apostata (332-363 d.C.) sulla base di alcune iscrizioni onorarie (CIL, IX, 417, 419, 420), delle quali però solo una è riconducibile con certezza all’imperatore. Bernabei attestava inoltre la scultura sulla sommità della facciata della Cattedrale.

L’anno successivo François Lenormant interpretava quei blocchi calcarei iscritti come parte di basi di statue e collegava una delle iscrizioni dubbie con il busto, proponendo l’integrazione “IVLIANO”. Sulla base di questa considerazione riconosceva nel busto l’unica parte superstite di una statua marmorea di dimensioni colossali dedicata a Giuliano, del IV secolo d.C., che sarebbe stata posizionata nella facciata della chiesa durante il periodo medievale, quando il ritratto sarebbe stato identificato con l’effigie di san Canio, patrono di Acerenza e titolare della chiesa.

Nel 1901 Salomon Reinach e Gaetano Negri, e subito dopo Luigi Correra (1902) accettarono, seppur con qualche riserva, l’identificazione con l’Apostata; nello stesso periodo Etienne Michon evidenziava la diversità dei tipi monetali e delle immagini riferibili a Giuliano, retrodatando la scultura dalla tarda epoca imperiale a quella adrianea.

Nel 1903 Richard Delbrück spostò la datazione dell’opera dal periodo romano a quello medievale avanzato, considerandola come un prodotto della plastica dell’Italia meridionale del XIII secolo, confrontabile con i busti capuani della Porta di Federico II.

Se Friedrich Philippi e Julius Reinhard Dietrich (1903) cercarono di ripristinare la cronologia romana, Reinach (1903) optò per l’ipotesi medievale, anche se non federiciana. La datazione medievale fu ripresa anche da Émile Bertaux (1903), Adolfo Venturi (1904), Pietro Toesca (1927), Franz Kampers (1929) e Wolfgang F. Volbach (1930). Sempre nel 1903 Ernest Babelon ritenne il ritratto di epoca adrianea, come Michon (1901), ipotizzando tuttavia una sua manipolazione tra Medioevo e Rinascimento e una sua “estrazione” da una primitiva statua colossale.

Nel 1930 Roberto Andreotti adduceva nuovi argomenti a sostegno dell’identificazione del ritratto con l’Apostata e proponeva, sulla base dello stile, una datazione prossima al IV secolo d.C. La sua tesi sarebbe stata ripresa, anni dopo, da Nicola Forenza (1937), da Emilio Magaldi (1947) e da Ferdinando Bologna (1950).

Nel 1939 Harald Keller, seguito diversi anni dopo da Adriano Prandi (1953), avanzò l’ipotesi che il busto fosse composto da una testa tardoantica innestata su un busto medievale. Se Hans Wentzel (1955) lo riteneva opera del XIII secolo ispirata all’antico, nello stesso anno Guido von Kaschnitz-Weinberg ne precisò la datazione ad un periodo non anteriore al 1250, riconoscendovi un ritratto di Galvano Lancia, signore di Tolve (vicino Acerenza) e collaboratore di Manfredi. Kaschnitz-Weinberg fu anche l’unico a puntualizzare che il busto era stato spostato dalla sommità della facciata del Duomo in un locale dell’edificio.

Nel 1959 Klaus Wessel riconosceva nel busto il re Manfredi; nel 1962 Andreotti ribadiva l’identificazione con Giuliano; Pierre Lévêque (1963) vi vedeva un ritratto medievale; Bologna (1969) ritornava all’ipotesi di un pezzo antico rilavorato, trovando eco nel 1978 in Gian Lorenzo Mellini.

Nel 1972 Raissa Calza, nel datare la scultura al XIII secolo, pretese che il busto fosse stato collocato sulla facciata della chiesa nel 1504, e identificato con San Pietro.

Helmut Buschhausen (1974, 1978) vi riconobbe un’opera federiciana all’antica, soffermandosi sull’uso di quel periodo – anche in Italia meridionale – di collocare statue di laici all’esterno di edifici religiosi.

Carl Arnold Willemsen (1977) escluse l’identificazione con Federico, proponendo quella con Manfredi o Galvano Lancia.

A seguito della datazione di Clara Gelao (1982) al II-III secolo d.C., Nuccia Barbone Pugliese (1982) ha ipotizzato che il busto sia stato collocato in cima alla facciata della chiesa in occasione dei restauri d’inizio Cinquecento.

Nel 1986 Luigi Todisco ha riaperto la questione nei termini che vengono sostanzialmente accolti nel paragrafo “descrizione” di questa scheda. 

Fonti iconografiche
Fonti e documenti
Bibliografia

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Allegati
Link esterni
SchedatoreBianca de Divitiis, Francesco Caglioti e Michela Tarallo
Data di compilazione22/05/2013 13:42:29
Data ultima revisione30/01/2017 15:53:21
Per citare questa schedahttp://db.histantartsi.eu/web/rest/Opera di Arte/247