Scheda Città | Capua | |
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Letterati che nascono, vivono o operano in città | Fra Domenico da Caramanico Marino Antonio Rinaldi Bartolomeo Sabino Giovan Battista Damiani Lucio Paganino Vincenzo Antignano Ottaviano della Ratta Teodorico Morello Scipione Sannelli Girolamo d’Aquino Antonio Sanfelice detto Fra Plinio Vincenzo dell’Uva Benedetto dell’Uva Gian Antonio Manna Flavio Ventriglia Giulio Cesare Imbriani Francesco Anelli Salvatore Cipolla Vincenzo Zito Silverio Ajossa Marcantonio Laureo | |
Stampatori e produzione libraria cittadina | La maggior parte della letteratura prodotta da Capuani o relativa a Capua fu stampata a Napoli, come avvenne per quasi tutte le città del regno. Capua conobbe tuttavia due momenti significativi in cui si osservò la presenza di una stamperia. Nel 1489, per volere del vescovo Giordano Gaetani, fu dato alle stampe in città il cosiddetto Breviarium Capuanum, un incunabolo raro, stampato da Christian Preller il 10 marzo «iussu Iordani Gaytani Archiepiscopi Capuani et Patriarche Antiocheni» (IGI 2803, H 3814). L’episodio restò isolato, e si dovette attendere il 1547 perché di nuovo in città fosse attestata una nuova attività libraria. In quell’anno infatti lo stampatore alsaziano Johann Sultzbach, che di norma operava a Napoli, produsse a Capua cinque volumi, sui quali ci soffermeremo tra breve. La presenza di Sultzbach a Capua fu forse incoraggiata dalle turbolenze che nel 1547 si ebbero nella capitale e in varie parti del Regno, ma sappiamo per certo, grazie a quanto si dice nella Cancellaria di Manna (Manna 1588, 225v), che già nel marzo del 1546 la città di Capua aveva dato mandato ai suoi Eletti di «assalariare uno stampatore ad anno con provisione de ducati 30». La stampa a Capua fu dunque un’operazione di carattere pubblico, voluta dalla città. Sempre in Manna, tuttavia, veniamo a sapere che nel maggio del 1548 si diede mandato perché questa «provisione» non venisse più corrisposta: è dunque la stessa città a mettere fine alla presenza della stamperia di Sultzbach. Come già era avvenuto per il Breviarium, la produzione libraria del 1547 non ebbe alcun seguito. Persino durante la massima fioritura dell’antiquaria capuana nella prima metà del Seicento i libri su Capua continuarono ad essere stampati a Napoli. Una di queste edizioni, molto rara, contiene una descrizione della disfida di Barletta del 1503 e una raccolta di poesie latine in celebrazione di Ettore Fieramosca e dei campioni italiani coinvolti nell’episodio. Fu curata dal notaio capuano Giovan Battista Damiani, e include carmi di Marino Antonio Rinaldi, Bartolomeo Sabino, Crisostomo Colonna, Girolamo Carbone, Pietro Summonte, Francesco Peto, Pietro Favonio, Pietro Gravina (Damiani 1547). Il secondo libro, anch’esso rarissimo, è una dissertazione erudita sul termine paraclitus di Luca Cencio o Censio, che fu maestro a pubbliche spese a Capua per tutta la prima metà del Cinquecento, lasciando il posto nel 1549 ad un altro grammaticus, Lucio Paganino (cf. Manna 1588, 160v). Gli altri testi (Parisio 1547; Scaglione 1547a e 1547b), tutti rari, sono opera di personalità illustri dell’epoca: il cardinale Pietro Paolo Parisio di Cosenza ebbe un ruolo importante nel Concilio di Trento; Gian Francesco Scaglione era un giureconsulto napoletano, di origini aversane, che aveva già stampato alcune opere presso l’editore Sultzbach. | |
Biblioteche pubbliche e private | A partire almeno dalla metà del Cinquecento, dovette costituirsi un nucleo librario di proprietà dell’universitas, se non altro per conservare copia delle stampe e dei manoscritti delle opere che erano state prodotte o ricopiate a spese della città e con delibere ufficiali. Nella lettera agli Eletti di Capua sull’opera manoscritta del Sannelli [cf. sotto, la sez. Committenze di opere letterarie relative alla città], Giovan Battista Attendolo dichiara che l’opera, ricopiata in buona grafia, è degna di essere conservata presso “l’archivio delle scritture dell’Udienza” (Attendolo in Minieri Riccio 1890, 301), che doveva verosimilmente essere la sede dove usualmente si conservavano i libri finanziati dall’universitas. Tra tardo Cinquecento e primo Seicento fioriscono anche le biblioteche degli ordini religiosi; ricordiamo qui quelle del Seminario Arcivescovile, fondato nel 1568 e del Collegio dei Gesuiti, fondato nel 1611. Interessante la vicenda della biblioteca e dell’archivio del monastero di S. Giovanni delle Monache, ora scomparso: sappiamo infatti che furono riordinati da Michele Monaco negli anni in cui fu confessore del monastero. | |
Accademie | A Capua fu fondata nel secondo Cinquecento l’Accademia dei Rapiti, su iniziativa di Camillo Pellegrino sr. Dopo la morte di questi, nel 1603, l’Accademia dovette andare incontro a una certa decadenza, fino a cessare le attività. Intorno alla fine del 1626 essa venne come rifondata. Ne siamo informati dall’orazione in lode di Capua che Michele Monaco recitò proprio davanti al consesso dei Rapiti il 3 febbraio del 1627, dove si dice infatti: «Questa Academia nostra, illustrissima Capua, ancor’è bambina: pochi mesi sono, rinacque; non so come s’era smarrita, e tutta dolente cercava ricetto» (Monaco 1665, paragr. 2, c. A5 v.). L’Accademia ebbe il suo massimo splendore proprio in questa seconda fase, raccogliendo attorno a sé le personalità di maggior spicco dell’erudizione capuana, quali Fabio Vecchioni, Michele Monaco, Camillo Pellegrino jr., Salvatore Cipolla, Vincenzo Zito e altri. | |
Committenze di opere letterarie relative alla città | Lo statuto demaniale di Capua fece sì che fosse la stessa universitas a sobbarcarsi l’onere di una “politica culturale” mirata a promuovere e difendere l’immagine della propria città. E così il Consiglio, mediante gli Eletti, incoraggiò a più riprese la produzione letteraria, spesso finanziando la pubblicazione a stampa di opere manoscritte o commissionando opere ex novo. La già menzionata vicenda del 1547 relativa alla stamperia di Sultzbach rientra in queste attività: dei cinque volumi stampati, quello relativo a Ettore Fieramosca e alla disfida di Barletta è certamente da considerare un volume di propaganda civica, in quanto, tramite l’elogio di Ettore, l’opera finisce per essere un elogio della città stessa [cf. sopra, la sez. Stampatori e produzione letteraria cittadina]. Pochi anni dopo, verso la fine degli anni Cinquanta, la città, tramite la mediazione di uno dei suoi dotti notabili, Girolamo Aquino, progettò la stampa del libro antiquario sulla Campania antica del frate francescano Antonio Sanfelice, la cui erudizione lo aveva reso celebre col nome di Fra’ Plinio. Il Sanfelice non era capuano, ma nella sua opera veniva restituito a Capua il giusto spazio nella ricostruzione delle vicende antiche, e si sottolineava il rapporto etimologico tra i termini Capua e Campania. Fu pertanto la natura stessa dello scritto a suggerire al frate di rivolgersi all’Aquino, che convinse facilmente gli Eletti a sobbarcarsi le spese della pubblicazione. La vicenda, ricostruita integralmente da Nicola Onorati alla fine del Settecento (Onorati 1796, xxvi-xxx) portò nel 1562 alla stampa del volume (Sanfelice 1562) dopo qualche anno di passaggi burocratici. Al Sanfelice furono inoltre corrisposti cinquanta ducati. Non solo: sempre nel 1562 la città commissionò all’Aquino il volgarizzamento della stessa Campania. L’Aquino fu remunerato per la sua fatica con 25 ducati, ma il testo restò in forma manoscritta fino al 1796, quando fu stampato dall’Onorati. Questa vicenda della Campania e del suo volgarizzamento non è priva d’importanza: essa mostra il desiderio dei ceti dirigenti capuani di dotarsi di opere che sottolineassero l’antichità e la nobiltà di Capua in un’epoca in cui i privilegi acquisiti nei secoli andavano costantemente difesi da una politica viceregnale ben diversa da quella che aveva caratterizzato l’idilliaco rapporto tra Capua e la casa d’Aragona. Il volgarizzamento, poi, mostra la volontà che l’opera circolasse il più possibile, anche presso un pubblico non avvezzo al latino. Un’analoga vicenda di committenza pubblica si ebbe con uno scritto di una delle figure di maggiore spicco del secondo Cinquecento capuano, Giovan Battista Attendolo. Nel 1573 la città fece stampare a pubbliche spese l’orazione che questi aveva scritto in onore di Giovanni d’Austria per la vittoria navale riportata contro i Turchi a Lepanto nel 1571 (cf. Attendolo 1573). Alcuni anni dopo, gli Eletti chiesero allo stesso Attendolo una valutazione degli Annali del Sannelli, come sappiamo da una lettera di risposta del poeta agli Eletti conservata da Minieri Riccio ed edita nel 1890 (Minieri Riccio 1890, 297-304). Poiché l’episodio non figura in Manna 1588, esso è da ascriversi a un periodo compreso tra questa data e il 1593, data di morte dell’Attendolo. Anche in questo caso è notevole l’interesse della città per le opere che ne indagassero il passato. Per il giudizio dell’Attendolo su Sannelli v. sotto, la sez. Storiografia locale e cronache. | |
Dedicatari di opere letterarie | La serie di componimenti dedicati a Ettore Fieramosca, raccolti solo nel 1547 (cf. Damiani 1547), furono composti immediatamente dopo la disfida, che ebbe luogo nel 1503. Nel 1509 l’uomo d’armi capuano Lelio Gentile, che aveva una formazione classicista e si dilettava di studi di greco e latino, risulta il dedicatario di un sonetto di Benet Gareth, il Cariteo. Sempre Lelio è il dedicatario di un carme latino di Cosimo Anisio, stampato nel 1533 ma precedente di circa un decennio, dato che Lelio Gentile morì nel 1526. Alla città di Capua, mediante la formula Senatui Populoque Campano, è dedicata la Campania di Antonio Sanfelice, grato perché la città aveva finanziato integralmente l’edizione del libro. È invece pressoché impossibile rendere conto dei numerosi dedicatari capuani degli epigrammi latini raccolti in Morelli 1613, alla cui scheda si rimanda. Gli Eletti di Capua sono i dedicatari dell’edizione postuma, curata da Silvestro Ajossa, dell’orazione in lode di Capua di Michele Monaco (Monaco 1665). | |
Storie di famiglie | In quanto città demaniale, Capua non è associata alla letteratura sulle grandi famiglie feudali del sud Italia. Piuttosto in essa fioriva quella nobiltà cittadina dalla quale venivano estratti i quadri dell’amministrazione pubblica. Molti esponenti delle famiglie più in vista come i de Capua, i delle Vigne, i Lanza, i Ferramosca, gli Antignano, i della Leonessa, i dell’Uva ebbero spesso incarichi importanti anche nell’amministrazione centrale. Molte informazioni sui loro principali esponenti sono da rintracciare nella storiografia di Cinque e Seicento sul Regno, e nella letteratura biografica e prosopografica degli stessi eruditi capuani, in primis negli inediti di Fabio Vecchioni, nei cui Discorsi istorici era previsto uno studio delle famiglie antiche capuane [v. sotto, la sezione Storiografia locale e cronache e Letteratura antiquaria]. | |
Corografia e geografia | L’ampia attestazione nelle fonti classiche e la continuità abitativa, sia pure nella forma medievale della Capua nuova, fanno sì che la città figuri stabilmente nelle opere di geografi e antiquari umanisti. Due pagine (e cioè non poco, data la concisione dello scritto) sono dedicate a Capua nell’Italia illustrata di Flavio Biondo, al cui tempo la città in rovina appariva come un campo di maestosi monumenti diroccati attorno alla chiesa di S. Maria delle Grazie. Biondo afferma di ignorare chi avesse fondato la città nuova (dunque le vicende della Capua altomedievale erano ancora ignote a molti), e afferma di non essere riuscito ad avere informazioni dagli abitanti. Dopo aver infatti affermato che circa cento anni dopo la Guerra Gotica la città fu distrutta dai Longobardi, Biondo aggiunge:
Quis autem et quo tempore postea eam ad hunc in quo nunc est duos mille passus remotum trnastulerit locum nec alicubi legimus, nec ab his qui inhabitant civibus scire potuimus (Biondo 1531[1474], 411). Raffaele Maffei il Volterrano (Maffei 1506, 138) nomina Capys e altre fonti relative alle guerre annibaliche, e sull’età longobarda ripete quanto detto da Biondo. Anche Leandro Alberti menziona il Capys di Virgilio e altri autori latini che riprendono il mito di fondazione. Quanto alla storia più recente, Alberti afferma a sua volta di non sapere chi abbia fondato la città nuova, poi si sofferma a lungo sulla strage operata dai Francesi nel 1501, riportando come esempio di pudicizia cristiana l’episodio delle giovani capuane che preferirono morire piuttosto che essere violate dalla soldataglia (Alberti 1551,136r-137v). L’episodio, che Alberti riporta con toni encomiastici, è oggetto anche del libro di Pascale 1682. Tra fine XVI e inizio XVII le descrizioni del regno di Napoli si soffermano abitualmente su Capua, così Vitignano 1595, 12-15, e Mazzella 1601, 20-23. Capua è ben presente in un’opera a cui si è già fatto cenno e su cui si tornerà ancora, la Campania di Antonio Sanfelice detto Fra’ Plinio, stampata poco prima del libro dell’Alberti. È lo stesso Sanfelice, nell’epistola prefatoria di dedica al senato e al popolo capuano, a definire la propria opera chorographia, intesa evidentemente all’antica, come emulazione di Catone, Plinio, Mela etc., in quanto l’interesse è rivolto soprattutto a ricostruire la fisionomia della Campania antica, ma la sovrapposizione di piani con la topografia moderna è inevitabile. | |
Storiografia locale e cronache | La Capua tardo medievale e rinascimentale non conosce una vera e propria produzione storiografica o cronistica. È con la seconda metà del Cinquecento e poi col secolo successivo che fiorisce la stagione della storiografia capuana, del tutto intrecciata con gli sviluppi dell’antiquaria [v. sotto, la sez. Letteratura antiquaria]. Un profilo degli studi storici a Capua è in Cilento 1980; cf. anche Carfora 1998. Si indica usualmente in Scipione Sannelli (o Ciannelli) il primo ad aver provato una ricostruzione dell’intera storia capuana. Un rimaneggiamento seicentesco della sua opera, gli Annali della città di Capua, si conserva al Museo Campano di Capua; il ms. fu conservato presumibilmente a cura pubblica poiché, come visto sopra [cf. la sez. Committenza], gli Eletti della città chiesero a Giovan Battista Attendolo un parere sull’opera. L’Attendolo la dichiarò meritoria e degna di conservazione, benché l’autore si dimostrasse “oltre il dovere animoso, e troppo ardito nelle lodi di Capua”; l’opera era dunque meritevole di essere ricopiata in buona grafia, nonostante le molte imperfezioni (Attendolo in Minieri Riccio 1890, 301). Un pionieristico lavoro storiografico è la Historia Principum Langobardorum in due volumi curata da Camillo Pellegrino jr. che chiariva definitivamente la storia della fondazione longobarda della nuova Capua sul Volturno (abbiamo visto sopra che all’epoca di Flavio Biondo e poi di Maffei la vicenda era ancora ignota agli stessi Capuani). Pellegrino aveva raccolto il testimone di Marino Freccia, pubblicando e correggendo la trascrizione che quest’ultimo aveva compiuto di un manoscritto di Erchemperto, la principale fonte per la Capua altomedievale (v. Pellegrino 1643-1644. Cf. Freccia 1554, che parla della storia di Capua longobarda al f. 56v, capp. 27-28, a partire dalla storia dell'episcopato). | |
Letteratura antiquaria | Sebbene l’autore appartenesse a un nobile casato napoletano, non certo capuano, e nella sua opera Capua non occupasse a ben vedere uno spazio maggiore del giusto, la più antica opera a stampa frutto degli interessi antiquaria capuani può a buon diritto essere considerata la Campania di Antonio Sanfelice, la cui vicenda editoriale abbiamo trattato precedentemente [v. sopra, la sez. Stampatori e prod. libraria]. Preso in sé, il volume non è che una snella descrizione della Campania di età romana il cui territorio viene letto con spirito antiquario in parallelo con le modificazioni subite nel tempo e con lo stato presente. Tuttavia l’universitas capuana assorbì ideologicamente il progetto del libro, e se ne appropriò di fatto mediante il finanziamento della stampa e la traduzione commissionata al capuano Girolamo d’Aquino. Capua ambiva ad essere la prima città di Terra di Lavoro, e mirava a promuovere l’idea che l’antica Campania, che corrispondeva all’incirca alla regione moderna, fosse la tradizionale estensione del dominio cittadino, forte anche del nesso etimologico tra il suo nome e quello dell’intera regione. Grato del felice esito della vicenda editoriale, Fra’ Plinio assecondò queste ambizioni culturali capuane scrivendo nella sua epistola prefatoria di dedica: Inclytae Capuae nostra merito Campania quam et Latini et Graeci scriptores Campaniae dixere principem, quin propter amplitudinem opumque potentiam posse omnibus in terris imperii nomen ac dignitatem sustinere (Sanfelice 1562, 1v). E tuttavia, anche dopo lo studio del Sanfelice, una dettagliata descrizione ed interpretazione delle antichità capuane continuava a mancare: nella Campania l’autore si limitava infatti a menzionare con qualche accenno di descrizione i due monumenti capuani più celebri: l’anfiteatro e il criptoportico (con maggiore attenzione al secondo).Come detto anche in altre sezioni di questa scheda, nel tardo Cinquecento non mancarono affatto spunti antiquari tra gli eruditi capuani, anzi: le conoscenze sulla città antica e sulla storia capuana si fecero sempre più approfondite. Mancò però ancora a lungo un’opera che potesse essere per Capua quello che era stato il De Nola di Ambrogio Leone per Nola, ossia una monografia rigorosa sulla città antica, con ambizioni di esaustività. Non dovette giovare ai Capuani il fatto che la città, a differenza di Napoli, Nola, Fondi, Nocera o Sessa, avesse registrato nella sua storia una forte cesura a causa della soluzione della continuità abitativa e la fondazione medievale della Capua nuova: osservare i monumenti romani ben al di fuori delle mura cittadine poneva diversi interrogativi che solo una consapevolezza di tutto il percorso storico, soprattutto delle epoche più oscure, poteva risolvere. Non a caso una monografia sistematica su Capua vetus sarà opera dello stesso erudito che farà luce anche sulle vicende medievali: il compito di una pubblicazione sistematica sulle antichità di Capua lo assolse infatti a metà Seicento Camillo Pellegrino junior (per una rivalutazione dell’opera di Pellegrino cf. Ferone 2008, che giustamente mette in luce l’importanza del continuum tra antichità e medioevo nella concezione storiografica dell’antiquario capuano). La ricerca gli prenderà una vita intera, se è vero che nel 1630 Michele Monaco (Monaco 1630) già rinviava a questo lavoro, che tuttavia vedrà la luce solo nel 1651, dopo cioè la pubblicazione della Historia Principum Langobardorum che conteneva Erchemperto e la storia altomedievale di Capua [v. sopra, la sezione Storiografia locale e cronache]. Prima di questa data Pellegrino aveva già pubblicato alcune opere di erudizione capuana, come ad esempio un saggio sull’antica sede della città (cf. Pellegrino 1643), ma l’Apparato alle antichità di Capua (Pellegrino 1651) si pone come un’opera di ampio respiro, aggiornata al metodo della ricerca storico-antiquaria di quegli anni, un’opera che si segnala per l’equilibrio e per l’assenza di quel campanilismo radicale che permeava, ad esempio, l’opera di Vecchioni. Proprio Fabio Vecchioni resta una pagina ancora da scrivere, a proposito dell’antiquaria capuana. I primi dieci libri dei suoi Discorsi historici erano dedicati alla Capua antica, ma i materiali sono sostanzialmente inediti, e attendono ancora una messa a punto. Sull’interesse di Vecchioni per il Medioevo e in generale sui suoi interessi antiquari cf. Russo 2006-2007. | |
Letteratura ecclesiastica e religiosa | La produzione a Capua di letteratura religiosa aveva avuto un momento felice dietro la spinta del vescovo Caetani nell’ultimo quarto del Quattrocento. La già menzionata stampa del Breviarium Capuanum, discussa sopra [sez. Stampatori e produzione libraria cittadina], ne è la prova evidente. Il secolo successivo era stato per larga parte influenzato dal laico clima umanistico che aveva attraversato tutta la penisola, ed è solo a partire dalla fine del Cinquecento che la letteratura erudita riguardante la città si fuse con quella di stampo confessionale. Una data cruciale per questa fusione tra ricerche laiche e spirito controriformato fu l’ascesa al soglio vescovile capuano di Cesare Costa, nel 1572. Questi si fece non solo promotore della raccolta e della stampa degli statuti del seminario vescovile (Costa 1591), ma fu soprattutto l’autore, con l’aiuto degli eruditi locali, della prima ricostruzione grafica di Capua vetus, una mappa nella quale era segnalata l’ubicazione di ciascun monumento e ne era raffigurata una ricostruzione più o meno fedele. Ancora più significativo è che Costa, ammirato dalle antichità locali, fece dipingere questa rappresentazione della città sulle pareti della sala grande del Seminario, dove era visibile fino al Settecento. Morto Costa nel 1602, gli successe il cardinale Roberto Bellarmino, che continuò (sia pur per breve tempo, fino al 1605) a dare impulso alla vita culturale e religiosa cittadina. Figlio di questo clima è il principale interprete della letteratura religiosa e antiquaria capuana, Michele Monaco, il cui Sanctuarium Capuanum (Monaco 1630) e le correzioni incluse nella Recognitio Sanctuarii Capuani (Monaco 1637) sono di primo acchito una summa agiografica di santi capuani, ma contengono in realtà una gran messe di informazioni antiquarie di varia natura, al punto da prendere quasi la forma di una sylva erudita. Il Sanctuarium in particolare è una delle principali opere antiquarie su Capua e una delle più interessanti dell’intera letteratura erudita del Mezzogiorno moderno. Successiva di un trentennio al Monaco è la produzione di un dotto gesuita capuano, Giovanni Pietro Pasquale, che stampò nel 1667 un volume religioso-antiquiario sulla storia di S. Maria Maggiore a Capua (Pasquale 1667). | |
Letteratura giuridica | Capua è notoriamente patria di giuristi fin dall’epoca fridericiana: basti pensare alle figure di Pier delle Vigne e, nel secolo successivo, a Bartolomeo di Capua. La tradizione di studi giuridici continuò ininterrotta anche nel corso del XV secolo, e notevolmente consistente fu il numero di alti ufficiali del regno che provenivano dalle famiglie capuane. Un quadro d’insieme con una rassegna delle personalità più insigni, da Angelo Riccio a Panfilo Mollo, è in Cappuccio 1971, 45-47. La storiografia capuana del Seicento si occupò di ricostruire le biografie di questi ufficiali capuani: Fabio Vecchioni vi dedicò un intero libro dei suoi Discorsi istorici, che si conserva ancora oggi presso la Società Napoletana di Storia Patria in un poco studiato manoscritto autografo. Tra Rinascimento ed età moderna l’universitas si fece carico di pubblicare alcune opere di natura giuridica, ed è il caso dei due libri di Gian Francesco Scaglione e di quello di Pietro Paolo Parisio menzionati sopra, nella sez. sulla stamperia capuana. Nel secondo cinquecento scrissero opere di diritto alcune personalità capuane di rilievo: Flavio Ventriglia, autore di Commentaria ad jura municipalia Civitatis Capuanae sive ad Consuetudines Capuanas (Toppi 1678, 87, menziona altre opere, tra cui elogi ed epigrammi); Giulio Cesare Imbriani [per il quale v. anche sotto, la sez. Elogi della città]; Tommaso de Marinis etc. Benché non sia prettamente un testo giuridico, è opportuno segnalare qui il repertorio di Gian Antonio Manna (Manna 1588), che inventariò tutti gli atti del Consiglio, dalla seconda metà del Quattrocento ai suoi tempi, fornendo una guida valida ancora oggi per districarsi nell’archivio pubblico capuano. | |
Letteratura scientifica | La cultura capuana non si distinse particolarmente per gli studi scientifici e filosofico-naturalistici, benché scorrendo le pagine di repertori biografici quali ad esempio quello di Niccolò Toppi non manchino riferimenti a varie personalità che si distinsero in questi ambiti, come ad esempio il medico Paolo Bottone. Nel primo Seicento furono dati alle stampe alcuni titoli significativi; ci limitiamo a qualche esempio: nel 1605 fu pubblicato un commentario aristotelico di argomento meteorologico a opera di un prelato, Marcantonio Laureo, che fu il primo rettore del seminario diocesano (Laureo 1605). Nel 1639, un esponente della famiglia dell’Uva, l’ingegnere militare Flavio, scrisse un trattato sull’arte militare (dell’Uva 1639). | |
Poesia, prosa d'arte, altre forme letterarie | Capua poteva vantare di aver dato i natali al più antico esponente della lirica volgare italiana, Pier delle Vigne. Nonostante ciò, non è attestata una continuità nel tardo medioevo della produzione poetica a Capua, né latina né volgare. Sappiamo che tra la fine del Quattrocento e soprattutto il primo quarto del Cinquecento la famiglia Gentile, in particolare l’uomo d’armi Lelio, promosse una certa attività mecenatesca nella sua residenza della torre di S. Erasmo, tra le rovine classiche di Capua vetus, ma le nostre informazioni in merito si fermano qui (cf. Miletti c.d.s). Un nuovo inizio si ebbe tuttavia per impulso esterno: molta fortuna ebbe un epigramma latino del Sannazaro sull’anfiteatro di Capua, che inaugurò un fortunato filone di “Poesia delle rovine” a Capua, sulla scia di un filone che stava avendo notevole fortuna in Italia, soprattutto in relazione alle antichità romane: a partire dalla metà del Cinquecento le antichità di Capua ispirarono una produzione lirica per lo più latina che vide coinvolti vari autori, capuani e non, tra i quali Antonio Sanfelice, che pubblicò in coda alla sua Campania un epigramma per l’anfiteatro, Girolamo Aquino, Giovan Battista Attendolo, Giovanni Morelli etc. Una silloge di questi componimenti fu pubblicata dal Mazzocchi nel suo saggio sull’anfiteatro capuano (Mazzocchi 1727). L’interesse per la poesia volgare tra i dotti capuani fiorì nel secondo Cinquecento, come mostra la partecipazione di Camillo Pellegrino senior e Benedetto dell’Uva al dibattito intorno alla Liberata del Tasso e come mostra l’ampia produzione poetica dell’Attendolo. Molto interessante è il caso della poesia antiquaria composta da Giovanni Morelli, che raccolse in una stampa del 1613 (Morelli 1613), oltre a vari carmi di poesia religiosa, numerosi epigrammi latini dedicati alle antichità di Capua. Nello stesso volume figurano anche vari componimenti, sempre in versi latini, dedicati a un gran numero di esponenti della vita culturale e politica capuana di fine Cinquecento e inizio Seicento. | |
Elogi di città e altri scritti encomiastici o apologetici | Abbiamo già visto come le lodi di Capua trasparissero da molte menzioni della città sparse nella letteratura capuana e non: la virtù delle fanciulle suicide durante il sacco del 1501 costituiva chiaramente un motivo di elogio per la città, e così anche la sola presenza delle antichità romane, dell’anfiteatro, etc. In apertura al suo volume sulle antichità capuane, Camillo Pellegrino junior raccolse in numerose pagine tutte le lodi di Capua e dell’ager Campanus presenti nella letteratura antica e moderna (Pellegrino 1651). Già si è osservato come il volume in lode di Fieramosca e dei tredici duellanti italiani avesse da parte del suo curatore, il notaio capuano Damiani, un intento celebrativo della città (Damiani 1547). Abbiamo anche visto come gli scritti storici di Sannelli e Vecchioni avessero anche un obiettivo apologetico, mirati com’erano a confutare il quadro profondamente negativo di Capua e dei capuani che emergeva dall’opera di Tito Livio. Per trovare, però, una letteratura esplicitamente mirata all’encomio o all’apologia bisogna attendere il Seicento. Nel 1620 il notabile Giulio Cesare Imbriani, già sindaco di Capua, indirizzò al Vicerè una supplex exhortatio affinché non venissero revocati alcuni privilegi che la città aveva ottenuto nei secoli. Nel fare ciò Imbriani si diffonde in una pregevole storia di Capua a partire dall’antichità, intessendola con motivi d’encomio (Imbriani 1620). Un vero e proprio esempio di laus urbis è l’orazione in onore di Capua che Michele Monaco recitò il 3 febbraio del 1627 davanti ai membri dell’Accademia dei Rapiti e che fu pubblicata postuma, a Napoli, nel 1665 (Monaco 1665). | |
Altro | ||
Schedatore | Lorenzo Miletti | |
Per citare questa scheda | http://db.histantartsi.eu/web/rest/Letteratura/4 |