Profilo storico | L'assenza di un corpus di privilegi e diplomi, a differenza dei Libri Rossi di molte altre città pugliesi e del Mezzogiorno tutto, pone per Nardò un problema di reperimento delle fonti primarie su cui costruire un profilo storico coerente e argomentabile. Anche le sintesi più recenti, ad esempio Gaballo 2001, si fondano in minor parte su documenti d’archivio, quali le carte dei Registri della Cancelleria Angioina (Filangieri et al. 1950-2010) o quelle del Codice Aragonese (Trinchera 1866-1874), appoggiandosi con più facilità alle narrazioni delle storie erudite locali. È evidente che una ricostruzione di tal genere porta con sé ampi margini di errore e sarebbe necessario un lavoro sulle fonti documentarie molto più approfondito, che richiederebbe tuttavia un tempo non ben definibile, considerata la dislocazione in centri diversi dei fondi utili. In questa sezione si tenta di fornire informazioni che la storiografia ritiene certe, senza che tuttavia sia stato già possibile avviare un lavoro puntuale sulla documentazione. La città fu frequentemente infeudata. Già Federico II, nel 1212, per premiarne la fedeltà nelle guerre precedenti, concesse Nardò, come contea, a Scipione Gentile, insieme a Galatone e ad altre terre. Fino alla vittoria di Carlo I d’Angiò fu la discendenza di Scipione a mantenere il dominio di Nardò, che in seguito dal nuovo re fu donata a Filippo Cinardo de Tuziaco per poi tornare direttamente agli angioini: da Filippo I a Roberto, da Filippo II a Giovanna I. Quest’ultima fu prodiga di grazie e privilegi per la città: dall’indulto per le turbolenze tra le parti sorte in quei tempi anche nel centro neritino, in connessione alle lotte di successione per il trono, ai provvedimenti per igiene e sicurezza dei cittadini (Gaballo 2001, 64). Con la presa del potere di Carlo di Durazzo, nel 1383 Nardò fu concessa al suo fedele Carlo Ruffo. Tre anni dopo Raimondello Orsini del Balzo dava inizio alla sua opera di conquista in area pugliese, per poi riuscire ufficialmente ad ottenere il Principato di Taranto nel 1399, comprendente al suo interno anche la località neritina. Il rivale di Raimondello, Barnabò Sanseverino, assalì allora Taranto sottomettendola, e con essa gli altri centri inseriti nel Principato. Lo scontro, alla fine, premiò comunque l’Orsini del Balzo (Gaballo 2001, 65). Nel 1406, dopo che Maria d’Enghien, vedova di Raimondello, fu sconfitta da Ladislao, che la sposò per congiungere i domini della donna alla Corona, il re portò sotto il diretto controllo regio anche Nardò, a cui concesse il rinnovo dei privilegi già ottenuti in passato, aggiungendone di nuovi, tra i quali un’amnistia generale (Gaballo 2001, 67). Nel periodo in cui Maria visse a Napoli in una sorta di prigionia insieme al figlio Giovanni Antonio Orsini del Balzo, ovvero dopo il matrimonio con Ladislao, Luigi Sanseverino ne approfittò per rivendicare i diritti che riteneva di poter vantare sul feudo in virtù della parentela con Barnabò, facendo sua anche la città neritina nel 1415. Egli, in accordo con l’abate Giovanni de Epifanis, che era divenuto vescovo locale nel 1413 grazie anche all’interessamento dello stesso re, volle che le scuole pubbliche fossero molto floride e dotate di maestri alquanto dotti; introdusse inoltre l’esercizio militare per addestrare la gioventù alle armi (Tafuri 1848, 406-409). Quando Maria d’Enghien poté tornare a Lecce nel 1417, in seguito alla morte di Ladislao, si scontrò subito con il Sanseverino, ma il vescovo De Epifanis, insieme al conte di Copertino Tristano di Chiaromonte, intervenne per mettere ordine, e Luigi poté mantenere la contea di Nardò fino alla sua morte, nel 1435, diventando anche capitano generale delle truppe della regina Giovanna II. Per tre anni fu il figlio Tommaso ad ereditare il possesso della città, ma tradito dalla popolazione dovette fuggire nel 1438 e Giovanni Antonio Orsini del Balzo, principe di Taranto, riportò sotto il dominio della sua casata il centro neritino (Gaballo 2001, 68). Nel 1463, morto Giovanni Antonio, Ferrante I d’Aragona recuperò il Principato tarantino, inserendo nel demanio regio anche molte città, come Nardò stessa. La città, tra 1480 e 1481, fu toccata dalla guerra contro i Turchi, come molte altre della Terra d’Otranto. Nel settembre del 1480 il duca Alfonso d’Aragona visitò tutte le località soggette all’attacco turco, lasciandovi guarnigioni di difesa. In terra neritina pose un contingente a capo di Francesco delli Monti dei duchi d’Acria. Nel 1483, quando la guerra era da tempo conclusa, re Ferrante I si vide costretto a cedere diversi possedimenti del suo regno, vendendo anche Nardò per undicimila ducati ad Angilberto del Balzo (Gaballo 2001, 73). I cittadini ne furono alquanto delusi e tentarono in ogni modo di poter riscattare la propria libertà pagando quegli undicimila ducati, senza riuscirvi. Anche perché nel 1484 dovettero affrontare un attacco da parte dei veneziani, che presero prima Gallipoli e poi si diressero verso le città circostanti. I giovani studenti delle scuole e delle accademie militari neritine imbracciarono le armi, opponendo una strenua resistenza (Zacchino 1991, 35-53). Dopo alcuni giorni di assedio la città fu costretta a capitolare a firmare la tregua con i veneziani, restando tuttavia fortemente danneggiata dalla battaglia. Dopo che si giunse alla pace definitiva tra la Repubblica di Venezia e il Regno, il 20 ottobre del 1484 due rappresentanti di Nardò, Lupo de Nestore e Giovanni Pecoraro, furono inviati al re per discutere dei danni subiti. Ferrante I, nel novembre successivo, firmò un privilegio con cui concesse ai neritini sgravi fiscali, per far sì che Nardò potesse rialzarsi economicamente. Essa, tuttavia, restò sotto il dominio di Angilberto del Balzo (Gaballo 2001, 75-76), anche se da un punto di vista prettamente amministrativo Federico d'Aragona, in quel momento luogotenente del Regno per conto di suo padre, con un decreto del 16 marzo 1485 declassò la città a casale di Lecce, affidandone la giurisdizione civile e criminale al capitano leccese (Libro Rosso di Lecce, 251-253). (Ciò perché il centro neritino si era arreso ai veneziani). Angilberto, poco più avanti, coinvolto nella Congiura dei Baroni, fu spodestato dei propri possedimenti e decapitato nel 1486. Nardò, di conseguenza, tornò nel regio demanio fino alla morte di Ferrante I, avvenuta nel 1494, restandovi poi sotto i suoi successori Alfonso, Ferrante II e Federico. Tuttavia durante la discesa di Carlo VIII finì sotto il dominio francese, nell’inverno del 1495. Con Federico, poi, nel marzo del 1497 Nardò fu concessa in ducato a Belisario Acquaviva, figlio secondogenito del conte Giulio, come premio per avere costui rinunciato alla contea di Conversano in favore del fratello Andrea Matteo, che la possedeva precedentemente. I neritini protestarono, rivendicando la propria libertà ottenuta a partire da Ferrante I, ma Federico restò fermo nella sua scelta, pur illudendo la popolazione locale con la promessa che molto presto la loro città sarebbe stata reintegrata nel regio demanio (Gaballo 2001, 78). L’intero Cinquecento vide dunque il dominio della casata D’Acquaviva su Nardò, elevata a Marchesato nel 1516 con contemporanea riconferma a Belisario, che la resse per un trentennio. Gli Acquaviva tentarono anche di usurpare i ventiquattro feudi nobili del contado cittadino; un tentativo da parte dei neritini di distaccarsi da tale dominio per riacquisire la libertà si ebbe nel 1528, con l’invasione franco-veneta. In primavera la città accolse al proprio interno un presidio francese, volendo cercare nell’invasore un sostegno per un ritorno al demanio regio. Nel mese di luglio, peraltro, morì di peste Belisario. Dopo ben diciotto mesi di ribellione, tuttavia, Nardò dovette arrendersi alla vittoria di Carlo V, sottoscrivendo dei capitoli di resa, riuscendo a riottenere la tanto ambita demanialità. Decisiva fu pure la punizione esemplare inflitta ad alcuni capi del movimento rivoltoso: Pietro delli Falconi, Baldassare de Carignano e Chimonico de Merato vennero privati dei beni; Pietro Vetrano fu condannato a morte (ASL, Schede del notaio Nociglia per l’anno 1596, n. 104; Panareo 1942, 169-171). Già nel 1532, però, il viceré Pietro di Toledo infeudò nuovamente la città a Giovan Bernardino Acquaviva, al quale nel 1541 succedette il figlio Francesco che governò per altri diciotto anni, durante i quali i contrasti con la popolazione locale furono sempre più accesi, per varie ragioni: la riscossione indebita dei proventi civili, l’usurpazione di proprietà private, l’intromissione nell’operato di capitani e camerlenghi, così come nell’elezione del procuratore del monastero di Santa Chiara, i diversi soprusi e le prestazioni feudali gratuite pretese dai vassalli, l’incetta di sale e carne, i salari tagliati ai contadini (Zacchino 1990, 160). Durante il dominio di Francesco, tuttavia, Nardò si legò nel 1552 ad un complotto francofilo contro Carlo V, che aveva come obiettivo la conquista del Regno di Napoli. L’obiettivo specifico dei neritini era l’uccisione dell’Acquaviva (Coniglio 1951, 259). Il complotto fallì e in area pugliese ciò fu soprattutto dovuto all’operato del governatore delle province di Terra di Bari e Terra d’Otranto, Ferrante Loffredo, che fece torturare undici dei congiurati della città salentina (Zacchino 1990, 163-164). Il successore di Francesco, a partire dal 1559, fu il figlio, anch’egli di nome Giovan Bernardino. Costui resse la città nelle sue mani fino al 1596, quando morì. Gli succedette Belisario, suo primogenito. Gli Acquaviva mantennero il dominio di Nardò fino ai primi dell’Ottocento. |
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Corpus normativo | Non si è a conoscenza di un corpus di privilegi per la città di Nardò raccolti in un manoscritto, come nel caso di numerosi altri centri pugliesi e, più in generale, di tutto il Mezzogiorno italiano. Per poter ricostruire la situazione normativa locale sarebbe necessario scandagliare le diverse serie documentarie all’interno delle quali è possibile riscontrare informazioni sul contesto neritino. In primo luogo vanno prese in considerazione le pergamene dell'Archivio storico diocesano di Nardò. Per il periodo angioino e quello aragonese, poi, si può tentare di consultare le carte dei Registri della Cancelleria Angioina (Filangieri et al. 1950-2010) e quelle del Codice Aragonese (Trinchera 1866-1874). Utile appare anche un contributo di Salvatore Panareo, risalente alla prima metà degli anni quaranta del Novecento. In esso lo studioso fornisce anche un quadro della struttura amministrativa cittadina, con i due sindaci, uno per la parte dei nobili, l’altro per la parte dei popolari, a rappresentarne i vertici (Panareo 1942, 172). Si menziona, inoltre, la riforma degli statuti locali avvenuta a cavallo tra la fine degli anni ottanta del Quattrocento e l’inizio degli anni novanta: lo studioso riporta infatti uno dei capitoli, datato al 1491 (Panareo 1942, 172). Le fonti usate da Panareo sono i transunti di alcuni diplomi regi raccolti negli atti del notaio neritino Francesco Antonio Nociglia, i quali si conservano ancora nell’Archivio di Stato di Lecce: si tratta di 134 transunti. Molto rilevante, infine, anche la recente iniziativa dell’Associazione Culturale Apuliae Manuscripta, che ha proposto un progetto per il recupero, la tutela, la valorizzazione e la diffusione del patrimonio storico documentario della famiglia Acquaviva d'Aragona fra i secoli XV e XVIII, attraverso la costruzione di un fondo archivistico interamente digitale a partire dalla documentazione edita e, soprattutto, inedita, custodita in alcuni dei più importanti archivi storici europei, da Napoli a Madrid. La realizzazione di questo progetto, presentato nel marzo del 2010, potrebbe fornire dati di grande importanza anche per il Cinquecento di Nardò. |
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